Lettera dall'Italia
Nel Salento la prefica non canta più
<<Il rito illumina il senso del testo e il testo dà spesso testimonianza del rito>>. Così Brizio Montinaro esprime il legame inscindibile tra lamento funebre e rito nella Grecìa salentina, offrendoci una raccolta suggestiva e importante dei Canti di pianto e d'amore dall'Antico Salento (Bompiani, Milano 1994), consegnata alla storia come fonte imprescindibile per mantenere una consistente traccia della lingua e della cultura greche accomunanti, un tempo, gran parte dell'Italia meridionale. Quei lamenti (i morolòja) non possono essere analizzati solo come opere di poesia popolare. Essi nascono e si tramandano con lente mutazioni nei secoli per essere cantati, nelle stesse circostanze di dolore, in quella lingua e con i riti che gli antichi coloni greci avevano recato con sé dalla terra originaria.
Scarsi resti viventi delle zone greche si possono ritrovare oggi nell'Italia meridionale a testimonianza dell'antica Magna Grecia, e anche questi destinati ineluttabilmente a sparire. Pochi paesi della Calabria (Gerace e la Locride), della Sicilia (Piana degli Albanesi, già Piana dei Greci, Santa Cristina, ecc.), tracce nei nomi di rioni come la Grecìa catanzarese o la Grecìa salentina, che, seppur ormai ridotta a soli sette paesi (Calimera, Sternatia, Corigliano, Martano, Zollino, Martignano e Castrignano dei Greci), vive ancora nella sua quotidianità la lingua <<grìca>> e la cultura informata alla grecità. Eppure, anche in questa zona viva del Salento, figure cardine della grecità sono ormai estinte. E' scomparsa la figura di colei che era attrice del "canto di dolore" e portatrice dell'antica tradizione. La prefica non esiste più. Nessuno potrà ascoltarla ancora nel suo canto lamentoso e assistere al rito funebre che era già in Omero e nei tragici greci. <<Piangi, madre, il canto dei morti/Piangi, madre, i mali tuoi furenti>> (Euripide, Troiane); in termini analoghi il canto di pianto di Calimera: <<Piangete, madri, che avete figli/piangete con dolore forte>>.
Il rapporto con la morte (Thánatos anche in grìco) è mediato da Moira, il destino. <<Moira, Moira che ti feci,/ che cosa ti ho fatto/che sempre te la prendesti con me/e con me te la sei presa?/Lasciato! Mi avessi lasciato/e ti fossi accanita con qualcun'altro!/Quella Sorte mi rispose:/io devo consumare te>>. Tale rapporto non ha assunto nel corso del tempo colorazioni consolatorie cristiane; resta pagano in tutte le sue forme e pratiche, applicate minuziosamente nel rito rumoroso e complesso per aiutare il defunto al trapasso definitivo, affinché il suo periglioso viaggio sia senza ritorno. C'è nella minuziosità del rituale funerario, che si protrae per i 30-40 giorni di lutto stretto, anche la volontà di mantenere il dialogo con la persona cara, ma emerge soprattutto l'antica paura del ritorno del defunto che ossessiona i vivi e che si riflette, ad es., nella pratica di immobilizzazione dei piedi; e in alcuni canti viene affidato allo stesso morto l'incarico di tranquillizzare il vivo che mai più ritornerà. <<Non mi aspettare più, madre mia,/mai, mai, in nessun tempo,/perché qui dove mi hanno messa/qui si chiama dissolvimento>; <<Ho fatto una croce sulla porta,/e un'altra sul limitare:/mai, mai tornerò a casa/né per il bene né per il male>>.
La croce blocca il ritorno del morto, un simbolo che ferma il <<morto vivente>>. La paura di questo accompagna, scriveva Voltaire nel 1773, i cristiani di rito greco di fronte ai corpi incorrotti dei defunti che essi chiamano broucolacas o vroucolacas (succhiatori di sangue, vampiri), a differenza dei cristiani di rito latino che vedono il non imputridimento come segno di beatitudine eterna. E' quindi la tematica di corpo e anima, della sfida alla morte e alla vita, dei modi di accettazione della morte, che si formalizza nei riti delle aree greche; è il dolore oggettivato che assume la forma del gesto e del canto immaginifico e metaforico, e permette che il dialogo accorato, in prevalenza tra le madri e le figlie, cantato dalle prefiche aiuti a dare un contesto, spettacolarizzato e guidato, alla disperazione interiore. Un contesto in cui il gioco lirico delle parti sposta incessantemente l'attenzione dal vivo al morto mentre nel dialogo si inserisce il senso della continuità tra la vita e la morte, ma anche il senso delle azioni di ogni giorno che mancheranno al vivo e di cui il morto non avrà più bisogno, perché il suo rapporto è ormai solo con Thánatos. <<Chi ti prepara il letto perché tu dorma al soffice?/Me lo prepara il nero Tanato con le dure pietre>>. Una visione dell'al di là priva di ogni consolazione, <<sempre notte buia>> (panta nifta scotinì).
Alla donna è affidato il ruolo di portatrice del dolore e anche di spinta per il superamento. I canti di pianto sono femminili: è sempre la figura della madre o della figlia o della sposa che nel lamento rituale piange i suoi morti. Il dolore maschile è silenzioso e appartato. L'uomo si estrinseca invece nell'esultanza dell'amore. In grìco o in romanzo, i canti d'amore sono in massima parte maschili, inseriti nella vitalità e nella sensualità della natura mediterranea. <<O basilico dalle foglie larghe,/con le quaranta foglie./Quaranta ti amarono/io venni e ti presi>>. E ancora il tormentato rapporto "amore e morte" o meglio di amore oltre la morte vista nella sua fisicità: <<Se muoio voglio che tu mi pianga/scapigliata in mezzo al cortile,/che ti strappi i capelli di seta/e li deponga sul mio petto./Dopo un anno fammi dire una messa/e ai due anni qualche Pater Noster/e quando avrai fatto tutte queste cose/apri la tomba ed entra lì con me>>.
Ma troppi esempi dovrebbero qui scaturire per illustrare la ricchezza dei testi e del rito contenuta in questa fonte preziosa sulla Grecìa salentina "costruita" da Brizio Montinaro, grìco di Calimera e molto più che semplice curatore di un'antologia. E' l'appassionato salvataggio di fonti orali che si materializza in 44 canti di pianto e 27 canti d'amore, gran parte de quali dallo stesso "curatore" raccolti dal vivo tra il 1962 e il 1978 e incisi in originale nell'edizione discografica Musiche e canti popolari del Salento. Le trascrizioni grìche con traduzione poetica a fronte, la cura filologicamente sapiente dei testi, la comparazione letteraria e linguistica, nonché la contestualizzazione antropologica di queste fonti ci restituiscono, per quanto possibile, un mondo in via di estinzione.
Gabriella Nisticò