A Calimera, un'amena cittadina della Terra 
d'Otranto che porta nel suo stesso nome il gentile augurio di una "buona 
giornata", l'alloro è detto dafni. Così, secondo il mito, si chiamava la 
ninfa amata da Apollo, che per sfuggire al dio si tramutò nella pianta che 
incorona i poeti. Per entrambi i nomi, non si tratta di un prestito isolato 
dall'idioma greco. A Calimera, come in alcuni paesi circostanti ed in altri 
della Calabria, sopravvive un'isola linguistica dove si parla il 
<<grico>>, un dialetto che presenta una sostanziale affinità con la 
lingua della vicina Grecia. Le tracce di questa derivazione si perdono addietro 
nel tempo: il Salento fu uno degli approdi privilegiati dagli antichissimi 
colonizzatori, che tradussero nel nome stesso di Magna Grecia la nostalgia della 
patria abbandonata e l'ammirazione per il nuovo territorio della loro vita. Ma 
la penisola salentina fu anche uno degli epicentri più tenaci della dominazione 
di Bisanzio in Italia; e ancora nel XIII secolo D. C. i poeti bizantini di Terra 
d'Otranto, raccolti in una bella antologia da Marcello Gigante (Galatina, 1985), 
testimoniano la vitalità di una letteratura, che di fronte all'espansione della 
lingua romanza intendeva rimanere fedele ai modi di una lunga tradizione.
Si 
discute fra i dotti se il <<grico>> risalga a quei lontani albori 
della Grecità italica, o se le sue origini vadano piuttosto accostate all'epoca 
di Bisanzio e alla sua lingua. Per entrambe le ipotesi militano buoni argomenti; 
ma forse non è necessario ricorrere a una tanto drastica alternativa. I 
bizantini sovrapposero un nuovo impulso a una cultura che non aveva mai smarrito 
il senso della remota ascendenza ellenica, e che proprio per tale ragione era 
predisposta ad accogliere fatti linguistici e suggestioni espressive che alla 
medesima tradizione risalivano. Questa terza via è la proposta di Brizio 
Montinaro, che la corrobora con impressionanti riscontri in cui la poesia orale 
grica dei nostri tempi riecheggia motivi e formule sia dei grandi testi 
dell'antica Grecia, sia della letteratura bizantina.
Ma premuto dal 
livellamento della lingua ufficiale, il grico del Salento è in via di 
estinzione; secondo recenti dati statistici, nei comuni grecofoni oramai esso è 
usato da poco più di un terzo degli abitanti. Rimane, sottratto al pericolo 
della scomparsa anche se irrigidito nel paradosso della scrittura, il tesoro di 
una poesia che nacque e si tramandò nella viva voce del popolo. Originario di 
Calimera, Montinaro ha assunto l'impegno di raccogliere i canti trascritti a 
partire dal 1870, e di aggiungere altri da lui registrati, traducendoli e 
annotandoli con la competenza e soprattutto l'amore di chi sente vibrare in 
queste voci la memoria del proprio sangue. Dagli originali sprigiona la rara 
emozione di parole che riemergono dai millenni, cantando gli eterni sentimenti 
dell'uomo con la freschezza degli antichissimi progenitori ellenici, che li 
svelarono alla poesia.
L'Iliade si chiude con il lamento dei genitori, 
della sposa e delle donne troiane sul corpo di Ettore; e il pianto sul morto 
costituisce una struttura essenziale della tragedia. Nelle lamentazioni griche, 
cantate dai parenti e dalle prefiche, lo strazio della distanza irrimediabile 
che separa il morto dal mondo dei vivi conserva la stessa energia rituale dei 
modelli antichi, a cui non si è sovrapposta traccia alcuna della rassegnazione e 
della speranza cristiana. Protagonista della morte è il destino; e 
morolòja (da moira e logos) è il nome del lamento funebre, 
<<discorso del destino>>. L'oltretomba è il regno buio che ingoia la 
gioia di sentirsi vivi; e chi rimane sulla terra può confortarsi soltanto con la 
triste illusione di intrecciare un estremo dialogo con lo scomparso, e di 
facilitare con l'incantesimo dei riti e delle offerte il suo passaggio 
definitivo nel mistero dell'aldilà. La morte è una violenza ingiusta e contro 
natura; e la sua vittima desidera di ritornare alla luce, al vento, agli affetti 
che furono la sua unica realtà.
Folgoranti immagini esprimono la pena di chi 
sopravvive. <<Nel giardino avevo un garofano / rosso e profumato. / 
Venite, belle vicine (chitonisse orie, con il profumo del greco antico: 
geiton e horios) / a vederlo strappato>>: così piange una 
giovane sposa. Ci sono il lamento per il padre, per il bambino, per i giovani 
caduti in guerra; c'è anche una singolare lamentazione per così dire anticipata, 
tra le più suggestive della raccolta: <<Se muoio, mio signore, / 
sotterrami nel cortile, / che i tuoi piedi mi calpestino / e l'anima ti 
dolga>>. Ma la situazione più frequente è il colloquio fra la madre e la 
figlia, voce di un legame di sangue che si è fatto comunanza di sentimenti e 
consuetudine di vita. Dice la madre morta: <<A me dispiacque, piccola mia, 
/ quando ho sentito le campane>>; e la figlia risponde:<<Dissi: 
povera mamma mia, / non ha avuto sorte nè fortuna>>. Altrove è la 
tenerezza materna a trovare una straziante fantasia: <<Dove seppellirete 
mia figlia / lasciate una finestrella: / che se sua madre desidera qualcosa / là 
possa andare a parlare>>.
Il tono alto degli antichi compianti su re ed 
eroi si trasforma nella concretezza del dettaglio realistico, che rispecchia la 
pena dell'abbandono nelle cose minute della vita d'ogni giorno. Nell'affidare il 
morto alla terra riemergono le memorie dei riti agrari dell'età pagana; ma 
prevale il senso di una solidarietà intima fra l'esperienza della realtà e il 
mistero dell'oltretomba: <<Ti prego, terra, ti prego, / tu che trasformi 
il grano in riso / vedi che ti ho mandato mia figlia / non guastare il suo bel 
viso>>. Chi rimane, immagina la morte come una continuazione delle usanze 
quotidiane: <<Chi ti darà la muta della biancheria / quando la domenica 
arriverà? ... Chi ti sveglierà, figlia mia / quando il giorno sarà 
alto?>>; ma la cruda smentita grida l'inesorabile diversità dell'altro 
mondo:<<Nessuno di quanti siamo qui: / io rimango sola ... Qui sotto è 
sempre sonno / sempre notte buia>>.
Ma chiudiamo con l'esultante 
vitalità di un canto di amore, anch'esso intessuto di realtà consuete che la 
fantasia trasfigura nel simbolo perentorio di un'iperbolica passione. 
<<Cristo! Ti fossi io corpettino, / e se no lembo di veste che sarei più 
giù, / e se no scarpa ti fossi del piede / che sarei padrone del tuo intero 
corpo, / e al mattino diventassi io acqua / per lavare le tue belle carni! / 
Vorrei, padrona, diventar questo solo / e del tuo letto diventar 
lenzuolo>>. E' un motivo tradizionale del canto popolare; ma al paragone 
con certe recenti trivialità di regale lignaggio, vien da pensare quanto sapesse 
riuscir nobile, e nello stesso tempo sensuale, l'immaginazione del 
popolo.